Roberto de Rubertis
È professore emerito della Sapienza, già ordinario di Disegno nella Facoltà di Architettura Valle Giulia di Roma, ha insegnato anche Progettazione architettonica nella facoltà di Ingegneria di Perugia. Architetto dal 1965, ha progettato grandi centri residenziali e di servizio (Pesaro, Chieti), musei e allestimenti museali (Perugia, Orvieto, Colfiorito). È stato presidente del Corso di Laurea in Grafica e progettazione multimediale della facoltà di Architettura di Roma. Ha fondato e diretto (dal 1986) la rivista "XY, dimensioni del disegno". Conduce ricerche nel campo della percezione visiva, del rilievo archeologico, della riqualificazione dei luoghi urbani irrisolti e dell'evoluzionismo in architettura.
La musica di Gianni
Gianni da poco non è più tra noi, ma il suo costante buon umore, la personale disponibilità che offriva a tutti, li ricordo con particolare intensità: erano esito del coraggio che sapeva infondere con la sua voce, sempre pacata e convincente.
Il suo sorriso contagioso mi ha sempre aiutato, sia nello studio che nel lavoro, a portare a fondo iniziative condivise e a praticare comportamenti che ora, più che mai, sento partecipi di un nostro comune e omogeneo atteggiamento nei confronti del disegno, della rappresentazione, della costruzione e della conservazione delle opere d’arte e d’architettura. Sento ancora la sua voce sostenere con forza, discutendo degli strumenti dei nostri mestieri di architetti e docenti d’architettura, quando gli illustravo l’operato che più mi convinceva: «Si ‒ mi confermava ‒ questa è “musica” per le mie orecchie». Era proprio questa la sua frequente espressione di consenso alle procedure che gli trasmettevo, e si riferiva soprattutto all’abilità nel fare uso del rilievo e della grafica tradizionale nei diversi modi della rappresentazione, contro i crescenti automatismi dell’informatica.
La sua era per me più che un’approvazione: era incoraggiamento e stimolo a proseguire con metodi che ritenevo un onore fossero anche da lui approvati. In più occasioni sentii Gianni particolarmente vicino al mio pensiero e mi avvalsi dell’aiuto della sua stima. I nostri scritti sono stati più volte affiancati e le nostre opinioni spesso condivise, in pubblicazioni nelle quali volentieri lui era intervenuto a sostenere l’insostituibile ruolo del disegno nella documentazione e nella costruzione delle opere di architettura.
Questa convergenza è sempre stata per me di sostegno sia nella progettazione che nel rilievo.
Continuerò ad aver presenti i suoi studi e le sue pubblicazioni nel merito, così come resterà presente la sua figura di compagno, collega e amico il cui ricordo ed esempio anche per le mie orecchie “continuerà ad essere musica”.
Giangiacomo D’Ardia. Progetti di architettura 1967-2017
Attraversano il tempo le DIACRONIE di Giangiacomo D’Ardia (Giangi per gli amici), quel tempo lungo che pervade le sue appassionate visioni d’architettura, ma anche il tempo di chi ricorda, o impara, le forme concepite in un’epoca in cui ancora si sapeva conciliare il presente con l’antico e con il futuro. Hanno infatti un marchio tutti i disegni/progetti di questa raccolta, il marchio riconoscibile di una forte personalità che ha saputo far emergere le idee circolanti tra chi disegnava, concepiva e progettava la città, prima che se ne disperdessero i valori essenziali di ideale sognato e di sostanza vissuta.
Queste DIACRONIE segnalano la maturazione di tendenze epocali e di atteggiamenti progettuali nei quali deve riconoscersi la forza innovativa della più autentica Scuola Romana di Architettura; da alcuni negata, ma che la testimonianza qui presentata pienamente conferma e consolida. È qui anche dato valore a quelle regole della rappresentazione che privilegiano la piena solidità classica dei volumi, sempre emendata da illusionismi prospettici. Regole che confermano Giangi come caposcuola di un ritorno al classico e al linguaggio solido di una geometria stabile e duratura, solo addolcita dall’ordine rasserenante degli spartiti architettonici eleganti che usa.
Immaginare con le mani
È quasi una provocazione la lunga riflessione critica sull’immagine che Alessandro Goppion, creatore di affascinanti apparati espositivi nei musei e nelle gallerie più prestigiose del mondo, propone a noi della redazione di XY. È una provocazione perché, senza tanti preamboli, egli sottolinea l’invadenza che la cultura visiva mostra oggi nella civiltà contemporanea. E si rivolge proprio a noi, impegnati a sostenere quanto sia importante il ruolo dell’immagine nello sviluppo del pensiero.
Goppion ci mette subito in guardia contro il crescente dominio del vedere sul fare; dominio che a suo dire non è poi così tanto efficiente, se a volte viene meno anche nell’attività operativa per eccellenza dell’artigiano che nel suo lavoro, non di rado, si fida dell’abilità delle sue mani piuttosto che di quell’intelligenza visiva messa al centro dell’attenzione, invece, da parte di chi si occupa di discipline grafiche.
Già negli anni Ottanta, infatti, eminenti studiosi furono indotti a far convergere nel titolo “il primato del disegno” le numerose iniziative culturali, le esposizioni e le pubblicazioni volte a mostrare, e dimostrare ove occorresse, quanto il disegno e ogni forma di rappresentazione per immagini alimentassero le sintesi mentali e intellettuali che stanno alla base della produzione artistica.
Ora, afferma Goppion, non che questo non sia vero, beninteso, ma esiste una dimensione alternativa o, se vogliamo, integrativa di questo ben diffuso e radicato convincimento. È il ruolo delle mani nel farsi prolungamento del pensiero, per produrre esiti ai quali a volte la mente non giunge con la stessa prontezza che invece è propria del fare manualmente. Spesso, egli sostiene, l’azione immediata compiuta agendo direttamente sulle cose vale più di quella a lungo elaborata attraverso complesse speculazioni, fossero anche lucidamente guidate dal vedere. L’intuizione operativa con cui agisce la mano va spesso più prontamente allo scopo e dà luogo a invenzioni che l’azione, nel suo farsi, mostra come maggiormente efficaci.
In fondo è proprio questo l’insegnamento operazionista di Vico e di Bridgman, confermato in ogni manifestazione della lunga esperienza di artigiano e di espositore d’arte di Goppion.
Milano, 21 ottobre 2016
Terre senz'ombra
Da Adelphi una ghiotta novità per chi si occupa di immagine nell’arte e nella scienza, cioè per tutti i lettori di XY.
È il bel libro di Anna Ottani Cavina Terre senz’ombra che, non a caso, esce nella nuova collana Imago di cui è il secondo titolo.
L’autrice propone una lettura affascinante di quelle terre italiane che sono senz’ombra, perché illuminate dalla luce della cultura e che dalla cultura sono coltivate e “cotte” nel senso che piacerebbe a Claude Lévi-Strauss, in quanto plasmate dai sentimenti umani conformemente alle immagini del mondo come l’uomo le vuole.
Immagini che narrano di “quando il paese diventò paesaggio” e che sostituiscono la realtà oggettiva, vuota di storia e di passioni. Al contrario dalla pittura di Carracci, di Poussin, di Jones e di Canaletto è nato un mondo che è ancora più vero e umanamente reale perché è il solo conosciuto dalle vie del cuore e della memoria.
Leggere queste pagine e immergersi nelle illustrazioni che le sostengono è vivere l’avventura di questa sostituzione.
Splendida è la selezione delle testimonianze scelte e sapientemente distribuite per oltre quattrocento eleganti pagine.
Viaggiatori d’architettura in Italia
Questa impegnativa ed eccellente opera di Vitale Cardone, Vito per gli amici, edita dall'Università degli Studi di Salerno nel marzo 2014, espone riflessioni che vanno ben al di là di quanto il titolo non lasci intendere; non si limita infatti ad una rassegna storico-geografica delle incursioni compiute dai più celebri illustratori d'architettura nelle opere realizzate nell'area mediterranea, e il vero obiettivo sembra essere non il viaggio di pittori e architetti quanto quello, di ben più ampia portata, compiuto dalle opere raffigurate che, anche in virtù delle splendide immagini eseguite, presero a percorrere l'Europa e oltre, trasmettendo anzi creando quell'idea-mito di un paese felice per le bellezze ambientali e per l'arricchimento che di queste fecero gli artisti. Al punto che oggi è lecito porsi l'interrogativo di chi abbia dato maggior contributo al consolidarsi del mito della mediterraneità, se le opere in sé o la divulgazione sapiente delle loro immagini.
È abile infatti Cardone nell'attingere ad un repertorio vasto e articolato di soggetti e di tematiche che, senza limiti epocali né geografici, lo conducono in giro per i paesi che circondano quel mare che, per eccellenza, "sta in mezzo alle terre", alla ricerca delle radici culturali e ambientali del quid misterioso e indefinibile che sempre attrae verso i luoghi dove la luce ha indicato in modo diverso e affascinante come plasmare l'ambiente per la vita.
Al termine del suo tour l'autore ci propone nei fatti la propria definizione di mediterraneità che comprende sia l'incanto dei luoghi, sia l'arricchimento che questi ricevono dall'architettura che ne plasma nuovamente gli equilibri, sia ancora la poetica delle immagini che l'arte dei viaggiatori presenta, perfeziona e restituisce con altri e nuovi spessori, decantati da secoli di diverse e complesse interazioni. Non deve stupire quindi che l'autore scelga un moderno come Louis Kahn per descrivere le luci e i colori della Torre Saracena di Amalfi e lasci ad uno spirito mitteleuropeo come Albrecht Dürer il commento sia di un'opera di briosa leggerezza come il Duomo di Amalfi, sia di una di severa compostezza come il Castello di Innsbruck.
La narrazione di questa lunga e affascinante infatuazione europea per il mito della mediterraneità suscita un interrogativo: se la stagione della sua pienezza non sia irrimediabilmente conclusa; ma è difficile trovare risposta migliore di quella che può evincersi dalle stesse riflessioni dell'autore e dalla sapiente suggestione delle immagini che richiama alla nostra memoria; vale a dire che forse il periodo aureo sia stato proprio quello compreso nei limiti temporali da lui suggeriti. Questo anche alla luce di quanto più recenti considerazioni sull'esito di quel mito, in termini di progresso civile, ci portino fatalmente a dedurre.